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6 luglio 2020

Il ricordo di Vincenzo Renzi francescano secolare di Jesi
appena tornato alla casa del Padre

Senza nulla di proprio

«Ancora non era notte,
Il Sabato dopo i Vespri
Frate Francesco chinò il capo
Ed al Signore tornò».

Non stride affatto accostare il momento della morte di san Francesco a quella di un suo umile discepolo. Francescano secolare dalle nozze più che d’oro di professione, Vincenzo Renzi è appena sorto in cielo, domenica scorsa, con la docilità di un servo, l’agilità di un giovane, le braccia traboccanti di opere buone, che hanno scaldato tante solitudini esistenziali, lungo il corso dei suoi 86 anni.

L’intero Ordine Francescano Secolare d’Italia ha celebrato già la sua testimonianza di vita con il contributo che segue, non potendo contenere tutti i gesti e le intenzioni con cui questo fornaio e missionario dei nostri giorni ha colorato i suoi passi senza discontinuità, fino al declino naturale. Una vita originale, che non può restare nascosta in tempi come quelli di oggi, tanto virulenti, bisognosi di pace, guarigione, fratellanza universale. Le grandi mani da lavoratore che aveva Vincenzo erano piene di questi beni. Ora potrà distribuirli senza limiti.

 

* * *

 

Hanno adottato due figlie, hanno incessantemente aperto casa a persone immigrate, hanno lavorato per quarant’anni giorno e notte in mezzo ai rifiuti urbani, precursori della raccolta differenziata e del riciclo di materiali usati, per versare tutto il ricavato in mano ai poveri: lo stile di vita di Anita e Vincenzo Renzi, coniugi francescani marchigiani, di Jesi, è estremamente sobrio; eppure solo un ragioniere ferrato potrebbe pazientemente quantificare tutto l’ammontare che hanno devoluto in beneficenza. Le cifre sono nero su bianco nei preziosi registri di cassa OFS, dai più recenti a quelli ingialliti dal tempo; perché all’Ordine Francescano Secolare Vincenzo e Anita versavano tutto il ricavato del loro “secondo lavoro”, quello missionario appunto, affinché l’Ordine lo destinasse alle persone bisognose individuate. Per rendere un’idea dei loro quattro decenni di elargizioni: le entrate rendicontate ad esempio solo nell’anno 2005, grazie a questa coppia, ammontano a 19mila euro. Fondi che si ripartivano tra missioni in Congo, Zambia, Brasile, Argentina, ma anche tra famiglie locali in difficoltà, malati di AIDS, iniziative diocesane, centro regionale e nazionale OFS. Tante altre donazioni poi sfuggono ai computi perché andavano direttamente agli stranieri che bussavano alla loro porta, in via Solazzi 8.

Dai campi al pane condiviso

«Chi avrà seminato con larghezza, con larghezza raccoglierà» (2Cor 9,6). Versetto che condensa gli ottantasei anni di Vincenzo, francescano secolare dalle nozze d’oro di professione, e gli ottantadue di sua moglie Anita, francescana di fatto.

Largo è l’abbraccio discreto di Anita, ancora oggi; larga la sua semplice tavola apparecchiata; largo è il solco perenne del sorriso di Vincenzo, le mani corte e forti, le spalle robuste e raggiungibili. Connotati maturati come vino nella botte del tempo, che con l’anzianità non sono sviliti, ma semmai arrotondati e definiti. Neanche la malattia comparsa da circa cinque anni ha cambiato Vincenzo: colpito da Alzheimer, lo si trova arrestato nella prolissità di parole con cui prima bonariamente sfiniva i vicini, ma confermato nella genuina mitezza, nell’umile obbedienza. Obbedisce a chiunque, tuttora, ma in particolare alla moglie, che non lo lascia un minuto, allungando un’occhiata anche quando va ad aprire la porta. La apre di buonumore, interessata solo a dare tutto quello di cui si può aver bisogno. E parla a bassa voce per non disturbare, qualora riposasse, l’attuale ospite di casa, Hassan, marocchino che vive con loro da tre anni, ma di cui Anita e Vincenzo si curavano già da diversi anni. Il magrebino ha purtroppo terminato l’ennesimo lavoro occasionale ed è di nuovo in febbrile ricerca. Accolto fin dal principio con affetto disinteressato, Hassan è rimasto così edificato che si è lasciato coinvolgere e ha aiutato la coppia per sei anni nella loro attività di raccolta, e ora, terminata quella, sostiene i consorti anziani quando hanno bisogno. Anita spera che possa presto essere assunto e possa trovare la sistemazione e l’amore che desidera, anche se con lui vicino si sente più sicura. «Noi ci organizzeremo quando lui se ne andrà», sospira serena; e comincia a raccontarsi, con riferimenti a date precise, e con immancabili proverbi e chicche dialettali.

Lei era la più piccola di quattro fratelli e Vincenzo il sesto di sette; le loro radici affondano nella vita di campagna. «A vent’anni ci siamo sposati e a venticinque ci siamo trasferiti a Jesi, avendo comprato il forno» prosegue Anita. Dal ’62 all’86 furono quindi panettieri. Ma da subito a Vincenzo non bastava alzarsi alle ore piccole per l’arte bianca: anticipava persino la levataccia notturna per andare per le vie in cerca di carta e cartone da rivendere per beneficenza.

Genitori putativi

Intanto ospitarono i suoi genitori fino alla loro dipartita, e nel frattempo adottarono e ricongiunsero due sorelline del salernitano che all’interno dell’istituto che le gestiva erano tenute separate fra di loro. Restituita loro una famiglia e fasciate le piaghe di quei cuori, i genitori francescani iniziarono subito nuove accoglienze. «Vedevo Vincenzo molto attivo», racconta il peruviano Celso, oggi trasferito a Milano con la sua famiglia, ma che da ragazzo trascorse intere estati in casa Renzi. «Ero a Jesi grazie alla borsa di studio, e quando il collegio Pergolesi chiudeva loro mi ospitavano, davvero cortesi. Ero sbalordito da tutta la loro generosità, che mi ha accompagnato anche nel ritorno in Perù, perché, in contatto col mio parroco, Anita e Vincenzo inviavano anche là quanto occorreva».

E Maria e Lorena, figlie adottive dei due fornai di san Francesco, si sono mai sentite trascurate per le tante attenzioni rivolte dai genitori all’esterno? «Credo proprio di no – risponde Anita. Se qualche diffidenza hanno vissuto all’inizio, con gli estranei in casa, dopo capivano presto che si creava un arricchimento per tutti. Maria è ancora oggi sempre in contatto col suo caro amico Celso».

Lorena nel frattempo si è spenta per tumore alle ossa a soli cinquant’anni, nel recente 2016, ma Anita ha avuto grandi consolazioni spirituali e sente questa figlia viva accanto a sé, anche nel veder crescere da vicino le nipoti (prole di Lorena), che abitano col padre al piano di sopra. Comunque, da quando Maria e Lorena hanno lasciato il nido originario per costruirsi una famiglia, i loro genitori, da sempre pervasi dallo spirito di povertà, hanno abdicato la gestione del forno a favore di altri nipoti, senza aspettare di andare in pensione, per intensificare la raccolta di materiale usato, i pellegrinaggi e le accoglienze che dal profondo li attiravano.

Vocazione e guarigione

«Quelle mani ruvide di Vincenzo – racconta Grazia, sorella di fraternità OFS – erano nere, segnate dalle continue immersioni nella spazzatura; e quando lo trovavo in giro ricurvo per trarre materiale, sembrava che toccasse l’oro, perché il suo viso era sempre raggiante. Smontava tutto per recuperare rame, ferro, lana, vetro; e lo faceva in un garage freddo, in qualunque stagione». Anita lo aiutava, e poi lavava e accomodava vestiti, mobilia e altro che Vincenzo raccattava da parenti di defunti o da chi li dismetteva per qualsiasi motivo. Col suo mitico ape verde e una grande prestanza fisica aiutava gratuitamente chiunque anche a traslocare; e ogni offerta che ne ricavava era devoluta ai poveri. Sotto alla forza di Hulk, c’era la piena consapevolezza di una chiamata di Dio, suggellata attraverso una misteriosa guarigione. Appena abbandonato il forno per darsi al lavoro missionario, infatti, Vincenzo fu improvvisamente colpito e bloccato da tre ernie del disco. I medici, volendo valutare la pertinenza di un intervento, temporeggiavano, ma intanto potevano con certezza diagnosticare, e lo fecero, che Vincenzo non avrebbe lavorato mai più, specie sotto sforzo. Dopo venti giorni di ricovero, nella morsa dei dolori, il francescano di Jesi innalzò a Dio la sua supplica: «guariscimi Signore, se vuoi che io lavori per te!». Dopo neanche due giorni, ecco pronte le dimissioni, perché il paziente era perfettamente in piedi. Di lì prese a sollevare armadi, a trasportare lavatrici lungo le scale, più gagliardo che mai. E insieme alle commissioni recava a tutti anche una parola buona, un messaggio di speranza.

«Prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23)

E ancor più annunciava la pace a chi è stato accolto in via Solazzi 8, arrivato con gli sbarchi anni Novanta dall’Albania: Naim, dapprima, e poi suo fratello Spartaco, ospitato da Vincenzo e Anita per 13 anni insieme a sua moglie Vjollca e ai due figli che nacquero e crebbero in casa loro. Anche la cugina di Vjollca si rifugiò per un anno all’ombra del loro tetto, in fuga da un marito violento. «Era così vulnerabile – racconta Vjollca – che quando alzavo appena la voce con i miei figli davanti a lei, lei scattava terrorizzata». Ma in un anno di cure in casa Renzi arrivò ad affermare: «qui sono rinata una seconda volta». E al di là del caro ricordo della cugina co-ospitata per una parentesi di tempo insieme a loro, Vjollca e Spartaco esprimono immensa gratitudine per l’accoglienza di Anita e Vincenzo, tra le cui mura tutto si svolgeva in armonia, perché essi pazientavano sempre, contenevano, incoraggiavano. «Quanta libertà in quel loro appartamento. Potevo parlare albanese con i miei invitati; e i padroni di casa, tutt’altro che offesi, si facevano da parte, lieti che stessi a mio agio. Per far irritare un minimo Anita e Vincenzo – invece – la dovevi aver combinata davvero grossa», confida Spartaco, che stende un velo pietoso sul disordine che procurava in casa loro prima di introdurre Vjollca.

Ma i due consorti maturi, almeno, avranno discusso qualche volta fra loro! «Mai visti litigare o rivolgersi una sola parola offensiva in 22 anni che li conosco» rivela Vjollca. «Una coppia straordinaria – aggiunge Spartaco – perfettamente uguali e d’accordo in tutti gli intenti. Davvero non poteva capitarci di meglio in Italia. A Jesi, poi, tutti li conoscono: soprattutto per gli stranieri come noi, Vincenzo è il perno dell’integrazione. Grazie a come mi ha avviato lui, infatti, ho da subito trovato lavoro e costruito un futuro per la mia famiglia». Per questo la famiglia albanese, dopo i 13 anni da ospite, ha scelto di comperare un appartamento vicino a quello dei due francescani: sulla china degli anni «non potevamo lasciarli soli – spiega Vjollca. Li vado a trovare tre volte al giorno e il mercoledì resto lì per aiutarli. Da sconosciuti che eravamo un tempo, grazie alla loro fiducia, siamo diventati come parenti; e per i nostri figli, di tredici e vent’anni, Vincenzo e Anita rimarranno per sempre i loro nonni».

Una vita piena, quella dei due coniugi artigiani dell’accoglienza, che davvero ha fatto spazio alla larghezza di cui parla l’apostolo Paolo. Larghezza che Vincenzo e Anita permettono a qualunque viandante di attraversare lentamente, come trattore disperso nella vastità dei loro ridenti versanti coltivati.

Roberta Amico

da “Il nuovo Francesco il Volto Secolare” (FVS),
rivista dell’Ordine Francescano d’Italia, numero di aprile 2019

Foto: Gianluca Garbuglia